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Nel gioco ci si perde per ritrovarsi. Nascondino e mosca cieca come laboratori relazionali

7 novembre 2025 212

C’è un cortile, un muretto, un albero che offre riparo. Il sole filtra tra le foglie e si sente un respiro trattenuto, un bambino conta ad alta voce, gli occhi chiusi contro il muro, un altro si nasconde, cercando il punto perfetto dove sparire senza essere dimenticato. Il tempo si dilata, il cuore accelera, è solo un gioco, diremmo, ma nel nascondino, come nella mosca cieca, c'è molto più di quanto sembri. Questi giochi tradizionali, spesso relegati alla nostalgia o alla marginalità educativa, sono in realtà strumenti evolutivi, palestre emotive, linguaggi antichi con cui i bambini esplorano sé stessi, gli altri e il mondo e lo fanno in modi diversi, a seconda dell’età e del contesto: nel salotto di casa, tra cuscini e tende, o nel cortile della scuola, tra alberi e muretti. Il passaggio dal gioco domestico a quello all’aperto segna una trasformazione da esperienza intima e rassicurante a rito sociale e collettivo.

Nei primi anni di vita, il nascondino prende forma tra le mura di casa, il bambino si copre il volto con le mani, si nasconde dietro una tenda, dietro una poltrona, sotto i cappotto. Urla: “Sono qui!” e attende. Il genitore risponde: “Dov’è? Qui non c’è…” e prolunga la ricerca. È una danza affettiva, una coreografia di attesa e ritrovamento, il bambino decide volontariamente di scomparire, sperimenta l’assenza, ma anche la certezza che l’altro lo cercherà, questa attesa scatena una forte eccitazione psicofisica, pur senza movimento, il piacere di essere trovato intensifica la rappresentazione di sé e dell’altro. Nella ripetizione, il bambino consolida la fiducia: non ha più paura di perdere l’altro né di perdersi, alcuni bambini, però, faticano a nascondersi, l’angoscia dell’abbandono è troppo forte, altri, anche da grandi, continuano a cercare il gioco del nascondersi per avere conferma di essere ancora desiderati, cercati, amati e ci sono quelli che, mentre sono nascosti, hanno bisogno di farsi sentire, di lasciare una traccia, un rumore, un richiamo, perché il silenzio assoluto è troppo simile all’oblio.

Il nascondino, in questa forma primordiale, è un gioco di rassicurazione profonda è un rituale che si ripete, che costruisce la certezza della permanenza dell’altro, che conferma la continuità del legame. Il bambino si nasconde per essere trovato, per essere riconosciuto, per essere amato e quando viene scoperto, esplode in una gioia estrema è la prova che resta nel desiderio dei genitori, che sarà sempre cercato, trovato, accolto, anche nella propria assenza, continuerà ad esistere nei loro sguardi e nei loro pensieri.

Quando il gioco si sposta all’esterno, il nascondino cambia pelle diventa rito collettivo, laboratorio sociale. Il bambino che si nasconde sperimenta l’ebbrezza dell’autonomia, ma anche l’ansia dell’invisibilità. “Mi troveranno?” è la domanda implicita e quando l’altro arriva, chiama il nome e libera la tana, si compie un piccolo rito relazionale: sei stato visto, sei stato riconosciuto, sei tornato. È un gioco che lavora sulla soglia tra separazione e ricongiungimento, tra il bisogno di sparire e il desiderio di essere cercati e c’è un momento speciale, sospeso, che spesso passa inosservato ovvero quando resta un solo bambino da trovare. L’ultimo. Colui che, se riesce a correre verso la tana prima di essere intercettato, può liberare sé stesso e tutti gli altri. In quel gesto c’è una responsabilità silenziosa, una speranza collettiva. Il gruppo attende, il tempo si ferma, l’ultimo da trovare diventa il custode della possibilità di salvezza comune è un piccolo eroe, un messaggero di libertà e nel suo scatto finale si condensano tensione, fiducia, desiderio di riscatto.

Dal punto di vista psicologico, nascondino allena la tolleranza all’attesa, la gestione dell’ansia da separazione, la capacità di orientarsi nello spazio e di regolare l’impulso motorio, il bambino impara a stare fermo, a contenere l’eccitazione, a scegliere il momento giusto per correre verso la tana, è un gioco di strategia, ma anche di fiducia: fiducia che l’altro non dimentichi, che il gioco non si interrompa, che la relazione tenga. È una forma di narrazione incarnata, dove il corpo racconta il desiderio di essere visto, la paura di essere ignorato, la gioia dell’essere ritrovato. Sul piano relazionale, nascondino è una metafora potente ci si allontana per verificare se l’altro resta in contatto, si scompare per essere cercati. È un gioco che parla di legami, di desiderio di essere visti, di bisogno di essere reintegrati e nel gesto dell’ultimo da trovare, che corre per liberare tutti, si manifesta la dimensione etica del gioco: la responsabilità verso il gruppo, la possibilità di riscatto collettivo, la speranza che la relazione vinca sull’isolamento.

Mosca cieca, invece, è un gioco di fiducia e di vulnerabilità chi si benda rinuncia al controllo visivo, si affida agli altri sensi, si espone all’errore. È un gioco che richiede fiducia nel gruppo, nel contesto, nel proprio corpo, il bambino bendato si muove nello spazio con cautela, ascolta, tocca, si orienta. Chi lo guida, con la voce, con il tocco, con il silenzio, assume temporaneamente una funzione regolativa. Si crea una danza relazionale fatta di ascolto e reciprocità, dove il contatto diventa linguaggio, dove il corpo diventa mappa, dal punto di vista psicologico, mosca cieca stimola la propriocezione, l’orientamento sensoriale, la tolleranza all’incertezza, è un gioco che allena la capacità di affidarsi, di accettare l’errore, di esplorare senza vedere, ma è anche un gioco che permette di sperimentare la fragilità in un contesto protetto, di affidarsi all’altro senza perdere sé stessi. Sul piano relazionale, attiva dinamiche di cura, di contenimento, di rispetto dei confini chi guida deve essere attento, chi si lascia guidare deve fidarsi è una successione di ruoli che si alternano, una prova di reciprocità. Anche sul piano sociale e regolativo, mosca cieca è preziosa: richiede rispetto delle regole, turnazione, contenimento dell’euforia. Il gruppo diventa cornice regolativa, spazio sicuro in cui sperimentare ruoli e limiti, èun gioco che permette di esplorare la leadership e la followership, di negoziare il potere e la cura, di costruire una grammatica relazionale fatta di gesti, di pause, di sguardi invisibili.

Questi giochi, così semplici e così profondi, possono essere integrati in contesti educativi, terapeutici e familiari con grande efficacia. A scuola, possono favorire l’inclusione, la cooperazione, la regolazione emotiva. In terapia, possono essere strumenti di play therapy per lavorare sulla separazione, sulla fiducia, sulla narrazione del sé. In famiglia, possono diventare rituali di gioco condiviso, occasioni per osservare dinamiche relazionali, per costruire legami attraverso il corpo e il tempo, possono essere usati per esplorare la co-regolazione, per osservare le modalità di attaccamento, per favorire la costruzione di un senso di sé corporeo e relazionale.

In un’epoca in cui il gioco libero all’aperto è sempre più raro, riscoprire il valore di nascondino e mosca cieca significa restituire ai bambini uno spazio di crescita autentica, significa riconoscere che il gioco non è un lusso, ma un bisogno primario che nel gioco si costruisce il sé, si esplora l’altro, si impara a stare nel mondo. Significa anche riconoscere che il gioco è un linguaggio, una forma di pensiero, una modalità di relazione e che ogni gioco è una narrazione incarnata, una storia che il corpo racconta, una poesia che si scrive con il movimento.

Nel gioco ci si perde per imparare a ritrovarsi, ogni corsa verso la tana è un atto di fiducia, ogni passo incerto nella mosca cieca è un gesto di affidamento. I giochi all’aperto non sono solo ricordi d’infanzia, sono mappe interiori, tracce evolutive, gesti di cura e forse, anche da adulti, dovremmo ogni tanto chiudere gli occhi, contare fino a dieci, e tornare a cercarci, perché il gioco del nascondersi e del ritrovarsi non finisce davvero mai cambia forma, si traveste, si insinua nei gesti quotidiani, nei silenzi, nei desideri di essere visti e riconosciuti. È presente nelle relazioni, nei legami, nelle attese. È il bisogno di sapere che, anche quando ci allontaniamo, qualcuno ci sta cercando. È la certezza che, dietro ogni angolo, ci sia uno sguardo che ci riconosce, una voce che ci chiama, una tana che ci accoglie e in quella corsa, in quel tocco, in quel “trovato!”, si rinnova ogni volta la promessa più antica: non sei solo, io ti vedo, io ti cerco, io ti ritrovo.

 

Dott. Pierluigi Ceccalupo

Psicologo e Psicoterapeuta

 

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