Play Family Therapy: quando il gioco diventa cura per la famiglia

Nel cuore delle relazioni familiari spesso c'è silenzio. Non perché manchino le parole, ma perché le emozioni, quelle profonde, faticano a trovare uno spazio sicuro in cui mostrarsi. È qui che la Play Family Therapy entra in gioco, nel senso più profondo del termine. Non come passatempo, ma come strumento di relazione e trasformazione.
Il gioco, per un bambino, non è un'attività secondaria: è linguaggio, è mondo, è relazione. E quando il gioco coinvolge tutta la famiglia in un contesto terapeutico, diventa un canale privilegiato per dare voce a tensioni non dette, paure silenziose e desideri nascosti. In un contesto ludico, cadono difese, si riduce l’ansia, e si creano spazi autentici di relazione. Il terapeuta guida questi momenti con attenzione, stimolando riflessione e consapevolezza.
Questo approccio terapeutico non cerca un "paziente da curare", ma guarda alla famiglia come a un ecosistema relazionale in movimento. Ogni gesto, ogni sguardo tra genitori e figli, ogni esitazione o entusiasmo durante un’attività ludica, racconta qualcosa di importante. E il terapeuta, in questo contesto, non è un osservatore esterno, ma un accompagnatore attento che facilita l’esplorazione.
Spesso si disegna insieme. Un foglio bianco si trasforma in uno spazio di dialogo: chi prende l’iniziativa? Chi si ritrae? E che cosa raccontano i colori scelti? Altre volte si creano storie con pupazzi o marionette, dove si può parlare dei “problemi” senza sentirsi giudicati. Quando un bambino dice “Il mostro ha paura del buio”, sta forse raccontando una parte di sé che non riesce a esprimere apertamente. Ma se il genitore prende parte alla storia, qualcosa cambia: si genera comprensione, vicinanza, fiducia. Le resistenze familiare cadono, e ciò che prima era rabbia, paura o incomprensione, prende forma e diventa raccontabile. Il gioco, da elemento spontaneo, diventa uno strumento terapeutico trasformativo.
La Play Family Therapy si intreccia in modo naturale con l’approccio sistemico familiare. Entrambi vedono la famiglia come una rete di relazioni e significati, piuttosto che come un gruppo di individui separati. Il gioco, il disegno, la drammatizzazione diventano allora strumenti potentissimi per "vedere" ciò che non si mostra direttamente, per far emergere le emozioni indispensabili alla costruzione del processo terapeutico. Il gioco non è solo veicolo di espressione, ma anche spazio relazionale dinamico, dove si possono osservare i ruoli, gli equilibri e i pattern che tengono in piedi (o bloccano) il sistema familiare.
Queste attività fungono da specchi relazionali, permettendo al terapeuta di osservare e lavorare con tutto il sistema.
Come sottolinea Monica Pratelli nel suo libro Lo vedo dagli occhi, lavorare con i bambini richiede non solo competenza tecnica, ma anche la capacità di entrare nel loro mondo con rispetto e curiosità, senza dimenticare il mondo degli adulti. È proprio in questa tensione tra grande e piccolo, tra parola e gesto, tra silenzio e gioco che si costruisce il cambiamento.
Quando un bambino mostra un sintomo, un comportamento inspiegabile, una paura intensa, una regressione emotiva, spesso l’attenzione si rivolge a lui in modo diretto: cosa non va? Perché reagisce così? La psicoterapia familiare, invece, ci invita a compiere un passo laterale, guardando quel sintomo non come qualcosa “da eliminare”, ma come un messaggio relazionale, che dice molto di tutta la famiglia.
Il sintomo, infatti, non è mai solo “del bambino”. Come ha scritto Salvador Minuchin (1974), pioniere della terapia familiare strutturale, il sintomo può svolgere una funzione sistemica: proteggere equilibri fragili, denunciare tensioni sommerse, esprimere un malessere che non ha trovato altre vie per mostrarsi.
Pensiamo, ad esempio, a una bambina con una fobia degli spazi aperti: rifiuta di andare al parco, si irrigidisce in presenza di luoghi pubblici, ha crisi di panico nel caos urbano. A prima vista può sembrare un disturbo da trattare sul piano individuale. Ma se la relazione con la madre è caratterizzata da un’eccessiva simbiosi, una madre ansiosa, che teme il distacco e trasmette insicurezza, allora la fobia potrebbe essere il riflesso di quella relazione, la rappresentazione simbolica di un attaccamento non risolto. La bambina non sta dicendo “ho paura del parco”. Sta dicendo, forse, “non posso separarmi, non mi sento pronta”.
Non si tratta di colpevolizzare i genitori. Tutt’altro. Si tratta di restituire complessità alla lettura del disagio, mostrando che i sintomi dei bambini parlano spesso delle fatiche che attraversano l’intera famiglia. In questo senso, il lavoro terapeutico non è sull’individuo, ma sul sistema. E il gioco, all’interno della Play Family Therapy, diventa uno strumento essenziale, la famiglia inizia a comunicare in modo nuovo. Il disagio non viene più messo in scena come un “problema da risolvere”, ma come un messaggio da decodificare e risignificare. Il gioco crea uno spazio protetto dove le emozioni possono fluire, dove ognuno può prendere parola senza sentirsi minacciato, dove il sintomo diventa un ponte per costruire dialogo e consapevolezza.
Spesso, nelle sessioni, emergono narrazioni condivise: “il draghetto che non vuole uscire perché teme di perdere la mamma”, e proprio in quella storia, la famiglia può riconoscersi, ristrutturare ruoli, esprimere paure, desideri, ambivalenze.
E così, ciò che prima era fonte di dolore, diventa possibilità di incontro. Il gioco aiuta la famiglia a ritrovarsi dentro il sintomo, e da lì, lentamente, insieme, iniziare a cambiare.
Dott. Pierluigi Ceccalupo
Psicologo e Psicoterapeuta
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